domenica, settembre 30, 2007

humour inglese

Dunque rifiutarsi di aderire a un boicottaggio accademico (volto a far tacere degli intellettuali) significa attentare alla libertà di parola. Nientemeno.

sabato, settembre 29, 2007

il confine del nord

Un paio di giorni fa siamo stati a Metulla, la città più a nord di Israele. Quello che il sito web non dice è che la proclamazione dello Stato di Israele, nel 1948, significò per Metulla la perdita di buona parte delle terre, che erano state acquistate più o meno a peso d'oro e che finirono al di là del confine tra Israele e Libano. Confine che adesso è così:

Il confine tra Libano e Israele, più a sud prosegue e diventa il famoso muro dell'apartheid - un mio amico lo dice con un sorriso amaro, e mi spiega: "Io sono cresciuto in Sudafrica, so cosa era l'apartheid. Il muro non c'era, non serviva".


Il confine del Nord è piuttosto importante, perché al di là di esso c'è il Libano, quindi i soldati siriani - per intenderci, lo stesso esercito che protesse criminali nazisti come Alois Brunner. Quindi può capitare di incontrare dei soldati dell'esercito di Israele.
Questi, ad esempio, sono ufficiali, come si capisce dalle divise perfettamente stirate.

E sono ebrei, come si capisce dall'evidente senso di ordine e disciplina. Stanno osservando al di là del confine con il Libano (e della zona pattugliata da forze ONU, che nella fattispecie sono soldati italiani). A me non sembrano affatto quei mostri assetati di sangue, ma persone perfettamente normali, che nella vita fanno un altro mestiere. E danno il loro contributo a proteggere Israele e il popolo ebraico dal bestiale odio antisemita.



Al di là del confine, mi ha spiegato l'amico nato in Sudafrica e che è venuto a vivere qui, poco è cambiato rispetto a prima della guerra. Solo che le bandiere di Hezbollah non ci sono più.

E' abbastanza semplice distiguere la frontiera tra Israele e Libano: dove ci sono campi coltivati è Israele, dove è deserto è Libano. Perché la vera questione non è chi ha l'acqua e chi non la ha. E' come la si usa.

חול המועד סכות

venerdì, settembre 28, 2007

sukkot

Gerusalemme si è riempita di gente che urla al telefonino in francese, le vetrine delle agenzie immobiliari sono state tirate a lucido - perché questi turisti francesi sono i clienti migliori. Ogni possibile ed immaginabile causa umanitaria ha i suoi sostenitori fuori dai supermercati - vale la pena di ricordarsi che 1700 famiglie espulse da Gush Katif sono ancora senza casa. Un profuno di agrumi e di mirto ti stordisce nei pressi dei mercati, che sembrano tutti la Standa a dicembre, nel senso che ci trovi in vendita le stesse decorazioni che qui non sono quelle natalizie, ma quelle da appendere nella Sukkah.
Ci sono Sukkot da tutte le parti, pure sui tetti.

Organizzazioni di destra portano i turisti a visitare Hebron; nella stessa direzione partono gli autobus delle organizzazioni di sinistra, sponsorizzate dalla Ford (sì, l'azienda di Henry, l'editore della traduzione inglese dei Protocolli dei Savi di Sion) e dall'Unione europea, che però portano la gente da qualche parte nei pressi del muro di sicurezza. Si prevede l'arrivo di migliaia di cristiani evangelici per la loro annuale parata di solidarietà verso Israele e si sono infuriati i rabbini ortodossi, che evidentemente sono all'oscuro del complotto neocons-evangelico-sionista e a cui importa poco dei dieci milioni di dollari che arriveranno agli albergatori di questa città.
Per una serie di ragioni ci capita di passare Sukkot assieme ad ebrei tedeschi, che qui sono detti amichevolmente yekke - termine dalle molte etimologie: la più probabile è un derivato da jacke, la giacca che sarebbe parte dell'abbigliamento decoroso e rispettabile con cui gli ebrei tedeschi pretendevano di far dimenticare il caffettano dei parenti rimasti in Est Europa. Dottor wikipedia informa che il termine è slightly derogatory e a volte un badge of honour. Tipo quando il Professor Doktor Rabbiner ti dice con orgoglio che la differenza tra uno yekke e una vergine è che la seconda prima o poi smette di essere vergine. E va da sé che quando uno yekke dice ci vediamo alle 5.00 intende proprio le 5.00 non le 5ish come chiunque altro in questo Paese. Soprattutto non puoi incontrare uno yekke in rechov Hillel, ma piuttosto in Hillelstrasse. E così via.
A Sukkot si portano in sinagoga (puntuali, ovviamente) gli arba minim che sono l'ethrog -una specie di cedro- e il lulav -cioé un mazzo di mirto, salice e palma, che rappresentano diverse varietà di ebrei. Quello che porta molti frutti ma non ha profumo (cioé compie le mitzwot ma non ha fede), tipo la palma; quello che non ha mitzwot/frutti né fede/profumo (il salice), quello che ha fede ma pochi frutti (il mirto) e quello che ha tutto quanto, che sarebbe l'ethrog. Il principiò è che prendi l'ethrog e lo devi unire al lulav e poi "dimenare", come sta scritto nel Siddur della prima metà del Novecento che ci siamo portati dall'Italia. Cioé agitare in tutte le direzioni (davanti - Est, dietro - Ovest, sopra, sotto, sud, nord ecc. ecc.). Ma l'eccellenza nei frutti e nel profumo valgono solo se sono uniti agli altri ebrei, e questo è un insegnamento molto importante della nostra tradizione. Importante soprattutto per uno studente rabbino.

L'ethrog ha una punta e un picciolo. Come in ogni festa c'è da dire una benedizione, e la si dice prima di unire l'ethrog al lulav. Nel momento in cui si dice la benedizione sull'ethrog, questo ha la punta verso l'alto. Cioé è in posizione contraria rispetto al momento in cui si trova sull'albero. Poi lo si riporta in posizione naturale (col picciolo in su) e lo si unisce al lulav. La benedizione sull'ethrog cioé è il momento in cui la cultura interviene maggiormente sulla natura. E io trovo questo molto, molto tedesco.

ancora sui Classical Reform

Il signore qui accanto si chiamava Louis Lewandowski. Con una semplice ricerca su Internet si può scoprire che è nato e vissuto in Germania nell'Ottocento. E' considerato il fondatore della musica sinagogale contemporanea, assieme all'austriaco Solomon Sulzer, che è l'autore della melodia che viene cantata in tutte le sinagoghe ashkenazi - sì, anche della minoranza ortodossa- al momento dell'apertura dell'Aron ha Kodesh. Con un po' di pazienza potrete trovare in internet anche i file audio relativi all'opera di questi signori e ampliare i vostri orizzonti musiali ebraici ben oltre l'ultimo disco di Moni Ovadia.
E' il genere di musica che funziona se c'è un ampia sinagoga con una acustica eccellente, un coro ben allenato e un cantore professionista. Insomma, forse non incoraggia la partecipazione spontanea del pubblico al canto, ma impressiona per la sua profondità. Le sinagoghe progressive vanno giustamente orgogliose dei loro cantori e del repertorio dei loro cori (tutta roba che ha un costo, sia chiaro) che è rimasto sostanzialmente immutato fino agli anni Settanta - quando si è affermata una generazione di cantori formatasi nei campeggi. Il patrimonio musicale nato nella Berlino di Lewandowski e dalla Vienna di Sulzer - che sono stati anche degli eccezionali maestri - è comunque ancora adesso il tratto distintivo dei Classical Reform.
All'epoca di Sulzer e Lewandowski gli ebrei tedeschi non erano sionisti - il sionismo, anzi, era di là da venire. Ma già negli anni Trenta, in America, c'era Wise e i suoi allievi volevano introdurre la Hatikvah nel Siddur, e questo anche se da più parti si metteva in dubbio la lealtà verso il governo americano da parte degli ebrei, immigrati o di prima generazione - l'affermazione degli ideali sionisti all'interno del movimento progressivo si è scontrata, principalmente, con questo genere di timori. Ma la nascita dello Stato di Israele, il suo riconoscimento da parte dell'ONU e l'affermarsi di una cultura popolare israeliana -con proprie musiche, che sono poi entrate anche nelle sinagoghe progressive- hanno portato tutto il movimento progressivo su posizioni favorevoli al sionismo.
Si dice spesso che il mondo ebraico di oggi è un cerchio con due centri, Israele e la Diaspora. Due centri perché potenzialmente in competizione, ma un unico cerchio perché la competizione non è distruttiva. Israele non è contro la Diaspora, anche se è il sionismo è nato per annullare la Diaspora e trasformare gli ebrei in cittadini di Israele. E anche i patetici tentativi di delegittimare Israele, amplificando l'elogio della Diaspora, sono piuttosto velleitari. Tra le due realtà c'è un arricchimento reciproco come mostrano -per esempio- i motivi popolari israeliani entrati nella musica sinagogale.
Che accanto a Lewadowski fanno la loro figura.

mercoledì, settembre 26, 2007

artisti anni Settanta

"La prossima volta che ci vedremo spero che non avrete iniziato a vestirvi come tutti gli israeliani, con quel look da artisti anni Settanta..." Così ci ha detto, poco prima della nostra alya, una amica che adoriamo per infinite ragioni - il senso dell'umorismo, l'accento romano, la bimba paffuta, il marito semiamericano...
Ci spiace molto deluderla.

Comunque sono prodotte in un kibbutz. Cioé, lo facciamo per la causa (e perché sono comode, molto comode).

venerdì, settembre 21, 2007

kippur


Il giorno di Kippur dà la vita a tutti gli altri giorni dell'anno. Trasforma i cuori e guida i nostri cuori solo verso Dio. Cadono tutte le differenze materiali e le divisioni spirituali e resta solo la pace. Per questo a Kippur non abbiamo melodie tristi.
Rabbi Nahman di Brestlav

Dopo Kippur ce ne andiamo a nord per qualche giorno. Hatimah tovah a tutti.

giovedì, settembre 20, 2007

figli del sole

A quanto pare i kibbutz in Italia suscitano un entusiasmo bipartisan - che per me puzza molto di strumentalizzazioni. Mi è venuta voglia di raccontare un film che ho visto un paio di sere fa, che si intitola I figli del sole e racconta l'educazione nei kibbutzim socialisti. Il regista - Ron Tal - ha preso dei filmati realizzati nei kibbutzim e li ha fatti vedere a quei bambini, ormai cresciuti, e ai loro genitori. E ha registrato le loro voci.
Così si vedono, in bianco e nero, ragazzi e ragazze che giocano nei campi e si sentono voci di anziani che raccontano la scoperta della sessualità in stile socialista ("E come è stato il primo bacio?",chiede il regista "Ti ho detto che non te lo dico!", risponde una signora). Si vedono scene di lavoro nei campi ("Non esisteva una cosa come: non ho voglia di lavorare"), si sentono i signori cantare l'Internazionale in ebraico ("Ricordarmi ? Certo che me la ricordo, stai a sentire"). L'ebreo nuovo era anche molto fisico, anche se non so se gli ideatori del sistema avevano previsto la derisione ad opera del gruppo dei coetanei. Si faceva la doccia insieme fino ai tredici anni: le immagini di ragazzini ridenti sotto la doccia commentate dagli anziani di anni dopo non sono facili da sopportare e spiegano anche come mai una buona parte delle generazioni nate in quegli anni non sia tornava in kibbutz dopo il servizio militare.
Il contatto tra genitori e figli era limitato a poche ore al giorno, quando i genitori tornavano dai campi: i bambini dormivano nella Casa dei bimbi già a partire da pochi mesi di età e di loro si prendevano cura, a turno, le compagne - giacché vigeva il princìpio della rotazione degli incarichi: questo mese vai a trebbiare, il mese prossimo sei di turno nella Casa dei bimbi.

Chi ci è cresciuto dice che non ha sentito la mancanza della mamma e del babbo (voce di anziana signora: "E dopo tre mesi ha iniziato a dormire nella casa dei bambini. Separazione? Non era separazione. Era nel kibbutz!") ma non lo rifarebbe ai suoi figli, perché dei fratelli sì, di loro ha sentito la mancanza. Nell'ultima scena tu vedi scorrere i volti di questi ebrei nuovi, filmati dal basso verso l'alto, come li vedrebbe un bambino. E sorridono, ciascuno a modo suo. E poi le schermo diventa nero e alla fine dei titoli di coda, nell'angolo a destra in basso ti leggi le-abba le-ima e capisci che è l'omaggio del regista, cresciuto in kibbutz, ai suoi genitori, al loro mondo e ai loro sogni e alla grandezza di quei sogni. "Sono un ebreo nuovo? No, non so se sono un ebreo nuovo. Sono un ebreo del kibbutz. Sono un ebreo"
C'è una inquadratura che non mi esce di testa. E' un giorno di pioggia. Qualcuno dei compagni è uscito sotto la pioggia per fare una fotografia, o girare un piccolo frammento dei filmini di famiglia (di quello che nella società borghese sono i filmini di famiglia). I bambini sono rimasti nella Casa e guardano fuori, oltre la pioggia e hanno il naso spiaccicato contro il vetro della finestra. Ho pensato che chi ha girato quella breve sequenza pensava di fare una bella cosa per la sua comunità e per i genitori di quei bambini. Era un filmato che doveva ispirare tenerezza, allegria. Sentimenti che adesso percepisci impossibili, quando sai che un bimbo non sta con i genitori il più tempo possibile. Chissà se è questa, quella famosa natura umana che la storia non può cambiare.

lunedì, settembre 17, 2007

מחיה הכל

Alle origini del movimento progressivo c'è una esigenza di integrità intellettuale. Non è possibile dire cose in cui non si crede, per di più pubblicamente e in un contesto sacro. Non si può, per esempio, pregare per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e del culto sacrificale se si è convinti che il sacrificio di animali sia una inutile crudeltà.
Lo stesso discorso vale per la famosa seconda benedizione della Amidah (la serie di suppliche che sono il cuore del culto ebraico), quella che per gli ortodossi si conclude con מחיה המתים e che suona così in traduzione: Benedetto sei Tu o Signore dell'Universo, che fai (ri)vivere i morti.
Ci sono ottime ragioni per obiettare a questa formulazione. Prima di tutto è poco ebraica. E' vero che alcune correnti mistiche (diffuse soprattutto nel Sei-Settecento in Italia) afferma(va)no la reincarnazione, ma in linea di massima l'Ebraismo non si interessa granché del destino dell'anima dopo la morte. Anche perché non è certo con la minaccia dell'inferno che si ottiene l'adesione ai valori morali espressa dall'insieme delle mitzwot. Il modello di adesione alle mitzwot è Abramo, che se arriva al punto di legare suo figlio sull'altare, non è certo perché Dio minaccia di mandare la sua anima all'inferno. Inoltre, la minaccia dei castighi dopo la morte è una caratteristica delle credenze religiose che si fanno ideologia, ovvero sistema di potere, gerarchia, repressione. Qualcosa che ha poco a che fare con l'Ebraismo. I Siddurim del movimento progressivo concludono questa berakha con la formulazione מחיה הכל, Benedetto sei Tu o Signore dell'Universo, che dai vita a tutte le cose - che è un bel modo di presentare l'unità dell'Universo.
C'è però il comprensibile desiderio di immaginare che le persone care siano ancora da qualche parte e che le si possa prima o poi ri-incontrare. Qualche Siddur progrssivo presenta così anche la formula ortodossa sul (ri)vivere i morti, come una sorta di opzione secondaria (di solito tra parentesi), attinente più ai desideri intimi e personali che alla sfera delle credenze proclamate in pubblico. Mi sembra una esemplare integrità intellettuale.
Le cose stanno in maniera diversa per i conservative e gli ortodossi, che cercano di mantenere una finzione di continuità con il sistema di valori rappresentato dalla halakhà medievale. Mi piacerebbe però poter chiedere a questi sostenitori della tradizione e delle radici, se veramente sono convinti che per poter officiare un funerale ci voglia un minimo di dieci maschi adulti, che assieme farebbero una specie di muraglia contro gli spiriti e che questi spiriti nascerebbero dalle polluzioni notturne del defunto. E se questa è la convinzione -che certo è tradizionale, tradizionalissima, basta leggere Scholem per scoprirlo- sarebbe interessante una opinione a proposito di ricerca e di cellule staminali.

che succede laggiù

Tra le molte cose che noi studenti rabbini dobbiamo fare, ci sono i progetti di Tikkun Olam - che è un modo di definire la giustizia sociale. C'è una vasta gamma di progetti (dalla Open House per i diritti dei gay a un centro di ascolto per giovani in fuga dalle loro famiglie) e per ragioni che non mi ricordo nemmeno più io ho deciso di passare del tempo in una casa di riposo, i cui ospiti sono soprattutto ebrei russi che parlano yddish e una varietà di altre lingue. C'è anche una signora di origine balcanica che non vedeva l'ora di scambiare qualche parola in ladino. Ieri, sulle pareti di quella casa di riposo ho visto una di quelle foto che valgono più di diecimila parole. C'era una soldatessa che aiutava una anziana signora a mettere la maschera antigas.
E proprio quella anziana signora mi è passata davanti, barcollando con il suo deambulatore. Sono passati tanti anni dalla Guerra del Golfo, io sono cambiato non poco, ma quella signora non è cambiata affatto, porta ancora lo stesso foulard attorno alla testa, come fanno le russe in provincia. Ho pensato che quella signora ha rischiato per due volte di morire per colpa del gas avvelenato. La prima volta per gas nazista, la seconda volta per gas irakeno. Saranno pure due ragioni diverse (la famosa differenza tra antisionismo ed antisemitismo, che sarebbe così: l'antisionista desidera che gli ebrei rimangano senza difese, l'antisemita anche). Però sempre gas è; gas che uccide.
Ora mi chiedo come si possa sostenere che l'antisemitismo arabo terminerà quando qui si costruirà uno Stato binazionale: perché questa è la fesseria che mi capitava di sentire in Italia. Che da parte araba non c'è odio (ma no, figuriamoci), solo il legittimo desiderio di far tornare me e quella anziana signora parte di una minoranza, alla mercé del prossimo capopolo in cerca di capri espiatori. Davvero, vorrei che qualcuno dei sostenitori di questa strampalata ipotesi potesse visitare quella casa di riposo, da cui l'Italia cattodemocratica del 2007 sembra lontana quanto quella fascista del 1938.
E capisco, in Italia succedono tante brutte cose - l'ultima porcata di Calderoli e del maiale, per quel che ne capisco da qui, fa davvero rabbrividire. Una visita in una casa di riposo israeliana non è esattamente all'ordine del giorno, perché ci sono tante altre realtà tristi di cui occuparsi e su cui intervenire. Ragioni per parlare, ad alta voce; per far sentire la propria posizione. Peccato che ci sia così poca gente che vuole ascoltare. O guardare delle fotografie appese ai muri. Peccato, davvero.

sabato, settembre 15, 2007

the lobby

Mi scrivono che sta per uscire la traduzione italiana del libro di Mearsheimer e Walt. Cautelatevi con la recensione di David Remnick, direttore del New Yorker. Qui.
I due rispettabili studiosi vogliono far credere che la lobby israelo-americana è peggio delle altre lobby e che i cittadini americani vivono in un mondo in cui "Abraham Foxman gives the signal, Pat Robertson describes his apocalyptic rapture, Charles Krauthammer pumps out a column, Bernard Lewis delivers a lecture—and the President of the United States invades another country. Dick Cheney, Donald Rumsfeld, and Exxon-Mobil barely exist."

martedì, settembre 11, 2007

elogio dei Classical Reform

Tipicamente la sinagoga americana media non è lo shtibl delle barzellette di Moni Ovadia o il santuario italiano post-emancipazione - semideserto, tranne a Kippur. Nella tipica sinagoga americana uomini e donne siedono accanto, e di solito la funzione viene condotta in lingua inglese. In ebraico si canta e il cantore legge dal Sefer (ma quasi sempre con traduzione inglese). La gran parte delle sinagoghe americane, quelle in cui sono cresciuti i miei compagni e i loro geniori, sono sinagoghe così. E si definiscono Classical Reform.
In Italia non ci sono molti libri che spiegano questo concetto - perché agli italiani gli ebrei piacciono esotici, lontani nel tempo, impossibili da imitare e soprattutto perdenti. Mentre le sinagoghe Classical Reform non sono una faccenda di modeste proporzioni. Sono una faccenda iniziata quando gli ebrei tedeschi, poi immigrati in USA nell'Ottocento, hanno preso a distingere tra la parte profetica della Bibbia, gli alti insegnamenti di Amos e Isaia, e la ritualità esteriore, perceputa come caduca e condizionata da elementi non autenticamente ebraici. Sono notevoli le conseguenze di questa operazione intellettuale, che nell'ebraismo non sono una cosa così insolita, una distinzione di questo tipo è operata anche dal chassidismo - che è posteriore al movimento Reform, anche se adesso si presenta con le vesti dell'immutabilità. Gli ebrei tedeschi, a seguito di decisioni della maggioranza dei rabbini dell'epoca hanno potuto tagliarsi la barba, accettare la giurisdizione dello Stato (anziché quella delle corti rabbiniche) e accendere la luce di Sabato. Con una formula: hanno potuto incontrare la modernità.
Da qui vengono generazioni di rabbini e predicatori capaci di prendere posizione contro la schiavitù, di schierarsi a fianco dei minatori in lotta, di presentare il socialismo come orizzonte di emancipazione (nell'America del darwinismo economico...). I miei compagni di studio vengono da questo ambiente, che ovviamente è evoluto a partire dai primi del Novecento -che nei manuali è considerata l'epoca d'oro dei Classical Reform- ma che ha mantenuto intatta l'identificazione dei princìpi dell'Ebraismo con la giustizia sociale.
Tutto il dibattito sulle mitzwot si colloca dentro questo orizzonte. E' infatti ridicolo sostenere che le mitzwot si compiono perché lo ha decretato Dio: sappiamo che la Torah non è il dittafono di Dio, dove l'Onnipotente ha registrato il messaggio per i secoli avvenire. Né ha molto appeal, in America (dove la religione di maggioranza ha un dogma che si chiama predestinazione), predicare che chi fa il cattivo finisce all'inferno e allora nel mondo presente devi fare tanti fioretti che poi andrai in Paradiso. La forza dell'Ebraismo non sono i precetti, ma gli alti ideali etici: non opprimere lo straniero, l'orfano e il figlio della vedova. Che per i Classical Reform sono il filtro attraverso cui far passare la Tradizione, per decidere cosa merita di essere trasmesso alla generazione successiva. E anche questa idea della Tradizione, che vive solo se la si fa passare e la si reinterpreta, è qualcosa di profondamente ebraico e, di nuovo, è parte della cultura (più spesso inconsapevole) dell'Ebraismo americano.
Noi italiani ci arriviamo invece con procedimenti più intellettuali, quando ci arriviamo. Perché di solito tocca inciampare nel prevedibile imbecille che, fresco della lettura di Scholem, sostiene che l'ebraismo americano sarebbe assimilazionista, dal momento che è privo di caffettani neri e yddish (anche se la seconda privazione sarebbe un po' tutta da dimostrare). Che questo imbecille si autodefinisca di sinistra la dice lunga sulla sinistra italiana: da noi si amano gli ebrei quando sono "originari", quando sono pochi e quando sono sconfitti. Se non dai nazisti, perlomeno da Berlusconi. Oppure dal logorio della vita moderna.
Mi spiego. Proviamo a immaginare un confronto tra un ebreo ortodosso e un Classical Reform. Il primo è convinto che occorre seguire tutte le mitzwot perché così ha deciso Dio. E che aborre qualsiasi tentativo di distinguere, p. es. tra gli insegnamenti eterni e le disposizioni transitorie, dovute alle coordinate culturali dell'epoca (di cui comunque fanno parte anche gli ebrei) o a influenze esterne al mondo ebraico. Perché se si comincia a distinguere si finisce a ragionare come i cristiani, che distingendo tra materia e spirito della Legge hanno fondato qualcosa di esterno all'Ebraismo. In realtà la vita pratica dell'ebreo ortodosso è una serie di compromessi tra quel che non si dovrebbe fare e quello che purtroppo si è costretti a fare. Non si usa l'auto di Shabbat, significa: si va al tempio in auto e si parcheggia l'auto a distanza conveniente per non essere notati. Gli ortodossi più liberali sanno che le cose vanno così e allora parlano di gradi diversi di osservanza, in uno sforzo, a volte eroico, di ricondurre l'universo mondo dell'agire umano nelle categorie della halakha'. L'approccio Reform, è che gli esseri umani hanno sempre operato delle scelte tra quali mitzwot seguire e quali no. Peculiarità del Classical Reform è che il criterio in base al quale decidere sono i valori dell'insegnamento dei Profeti: in breve, la giustizia sociale. Spero sia chiaro perché gli ebrei americani hanno sostenuto in massa il movimento per i diritti civili e perché, ancora adesso, sono piuttosto diffidenti verso la amministrazione Bush.
Le sinagoghe Classical Reform non hanno il mikwe non perché si sono dovute prendere determinate decisioni finanziarie, e il mikwe costa troppo, e allora lo costruiremo un'altra volta. Non funziona così. Per i Classical Reform il mikwe è un esempio di stravolgimento dei valori dell'Ebraismo, perché collega l'impurità al corpo femminile, e in questo modo viene legittimata, anzi santificata, l'oppressione della donne. Non sto dicendo che sono d'accordo: in effetti, ci devo pensare. Sto solo facendo un esempio. E sono esempi che si potrebbero moltiplicare. E' questo approccio che ha fatto la grandezza dell'Ebraismo americano - il più riuscito esempio di integrazione di nuovi immigrati in una altra società. Viene da chiedersi perché non lo si potrebbe proporre ai musulmani che giungono in Europa, ma questo non è il punto. E' solo una riflessione sull'undici settembre, visto da qui.
Nota a margine: cattolici e ebrei, ambedue minoranze, hanno una lunga storia di intese e battaglie comuni, Oltreoceano. Ma c'è un significativo punto di distacco, ed è del 1926, nel pieno della affermazione dei Classical Reform. Le organizzazioni cattoliche iniziarono una battaglia contro la pubblicità di preservativi, che stava per essere legalizzata. Si aspettavano di trovare solidarietà tra gli ebrei, preoccupati come loro di questa degenerazione dei costumi. Ma la Conferenza dei Rabbini Americani rispose che il centro della morale familiare ebraica era la fedeltà reciproca e che il controllo delle nascite poteva essere un metodo per affrontare il problema della povertà. E così, nel 1929, gli ebrei furono la prima religione in America a favorire la contraccezione. Le chiese protestanti liberali avrebbero, poi, seguito il loro esempio.
Ma, ovviamente, qui parliamo solo di storia.

il mio undici settembre

A poche centinaia di metri da casa mia (ma in un altro isolato) ci sta il consolato USA. Oggi ha la bandiera a mezz'asta. Ci sono passato davanti mentre andavo a fare la spesa.
Ogni mattina, prima dell'inizio delle lezioni, noi studenti ci troviamo per dire la tefillah. Sì, lo fanno anche i Reform. Io è un po' che manco, perché sono impegnato con le selichot, e mezz'ora di sonno è comunque preziosa. Però stamattina volevo esserci. Come ho già scritto, siamo un gruppo di studenti, che sono in larga parte americani, tra i quali però i newyorkesi non sono la maggioranza. Questo è curioso, perché un terzo degli ebrei del Pianeta Terra vive a New York.
Così dopo la Amidah c'è stato, per loro, il tempo per raccontare il proprio undici settembre. Quello del 1997, quello del 2001, quello del 2005. Raccontare come era prima, e come è dopo. C'è chi è tornata a casa da scuola solo per scoprire che la casa non c'era più. C'è qualcuna giovane che, a partire da quel giorno si è resa conto che si poteva criticare il governo - ogni generazione ha la propria piazza Fontana, mi veniva da pensare (per la mia è stato l'omicidio Moro). C'è chi ogni volta che passa davanti a una scuola piange perché vede che le mamme non possono più accompagnare i bambini al di là dei cancelli. C'è chi riesce solo a dire ci stiamo tutti muovendo nella direzione sbagliata. O anche: i diritti si sono ridotti, non sono persona che deve parlare di politica ma è chiaro che (libera traduzione da espressioni americane che significano compagni il problema è politico).
Insomma, se non si è capito, non sono finito in mezzo a sostenitori dell'amministrazione Bush: da questo punto di vista i miei compagni di studio sono un campione statisticamente significativo dell'Ebraismo americano.

Io ho pensato a come è andato il mio undici settembre. Ero in biblioteca e ho sentito degli studenti parlare di aerei, torri e espressioni tipo: gli è andato contro, e poi è caduto tutto. Nel giro di dieci minuti l'università si è svuotata e io ho chiamato un amico giornalista, che mi ha raccontato di due aerei contro le Torri Gemelle, cazzo. Ho incontrato un collega e gli ho spiegato cosa era successo. Fino a questo punto la sensazione prevalente era l'essere attoniti. Avevo più o meno finito quel che dovevo fare e allora mi sono mosso verso la metropolitana, ho incontrato un gruppo di turisti americani che stavano in silenzio davanti a un negozio di televisori, era una bella giornata, c'era il sole che faceva riflessi nelle vetrine e quindi non si vedeva bene nella televisione di là della vetrina, sicché è toccato a me dare la notizia, e ho detto così: Do you remember Twin Towers? Non dimenticherò mai gli occhi di quel signore. Non li dimenticherò mai perché, ripeto, erano gli stessi occhi dei miei colleghi, degli studenti, dei miei amici - fino a quel momento.
E' stato il giorno dopo che le cose hanno cominciato a cambiare. Sempre più gente diceva, a me, che siccome c'era stato quell'attentato a New York era venuta ora di affrontare e risolvere la questione palestinese. Poi è venuta la leggenda dei cinquemila ebrei che non si erano presentati al lavoro la mattina dell'undici settembre - raccontata e diffusa anche dalla emittente radiofonica di sinistra di cui ero economicamente sostenitore. Poi la vignetta su Cuore (curiosa circoncidenza) così simile a tante altre vignette che i nostri nonni hanno dovuto sopportare. E, contemporanente, la storia di quello che aveva passeggiato per le strade di Firenze con indosso una bandiera palestinese e altro che quello che rischiano gli ebrei con i loro simboli, i veri perseguitati sono altri e i persecutori indovina chi sono.
Come si è reagito da parte ebraica, lo sappiamo bene. Ricordo un articolo su Ha Kehillah che diceva per favore teniamo fuori gli ebrei da questa storia, ma era l'autrice la prima a non crederci. Si poteva regaire diversamente? E chi lo sa. Fatto sta che proprio a partire da quel giorno di settembre si è dovuto investire di più sulla sicurezza. Anche perché le telefonate minatorie che ricevevamo si sono, improvvisamente, moltiplicate.
Diciamolo qui: io non credo che siamo dentro uno scontro di civiltà. Credo che all'interno di tutte le religioni, ma soprattutto nell'Islam, sia in corso uno scontro tra fondamentalisti e modernità. I fondamentalisti sanno che perderanno, e quindi conducono la battaglia in maniera sempre più criminale. E mi chiedo come mai i miei compagni di studio non si sono fatti trascinare in questa logica. Perché reagiscono alla perdita della casa leggendo Rumore bianco di Don De Lillo, o scoprendo la possibilità di criticare il loro governo, proprio mentre è impegnato in guerra. E nello stesso tempo, non si fanno prendere dalla auto-fustigazione stile: Il male del mondo è tutto colpa nostra, che vedo così comune tra gli orfani del comunismo (e che Uriel descrive qui in maniera magistrale). Una risposta, più o meno, ce la ho.

sabato, settembre 08, 2007

un po' di numeri

Camera ha provato ad analizzare la frequenza degli attacchi ad Israele ed il flusso di aiuti verso le organizzazioni palestinesi. Risultati qui.

mercoledì, settembre 05, 2007

orsi

Uno dei luoghi di Gerusalemme che mi piace di più è Kikar Safra, la piazza davanti al Municipio. Con le sue linee dritte e gli edifici squadrati, potrebbe assomigliare ad un quadro di De Chirico. Però ci sono gli orsi.

Tutt'intorno alla piazza ci sono questi statuotti di orsi sorridenti.

Un orso per ogni Paese del mondo; una bella idea per una città che due religioni su tre considerano il centro del mondo. Il concetto guida dell'opera -che ha un effetto meno deprimente dei molti monumenti ai caduti che adornano le piazze italiane- è il principio ebraico della responsabilità umana verso la natura, come principio guida nelle relazioni tra i popoli. La nostra religione, infatti, non obbliga gli uomini a credere in qualcosa, ma li spinge a stipulare accordi e a rispettarli.


In sintesi: evitiamo di farci la guerra, che è poco ecologico e poi si sprecano un sacco di energie. Cerchiamo piuttosto di stabilire dei patti tra di noi. Per stabilire un patto -che è un altro concetto base della civiltà ebraica- occorre prima di tutto riconoscersi. E anche questo riconoscimento della soggettività dell'Altro è un gran bell'insegnamento della nostra tradizione, per la qual il rapporto tra Dio e l'uomo ha la forma, appunto, di un patto.
Ah, a proposito: questo orso rappresenta la Palestina.



Ripeto per chi non se ne fosse accorto: nel centro di Gerusalemme ci sono statue dall'aria simpatica che rappresentano tutti i Paesi del mondo. Tra i quali, appunto, anche la Palestina. Perché, sapete, Israele riconosce il diritto dei palestinesi ad uno Stato. Il contrario, purtroppo, non è sempre vero.

andralamoussia

Li ho visti due sere fa, in concerto assieme a Frank London - sì, il boss dei Klezmatics. Sul palco l'ebraico di Gerusalemme ("nove" qui si dice teyysha) si mischiava all'inglese di New York. Da queste parti -dove essere ebrei non è necessariamente una nevrosi- capitano di questi incroci che, naturalmente, sono anche ottime ragioni per essere sionisti. .

lunedì, settembre 03, 2007

c'era posta per me

Sono riprese le lezioni e a volte non è facile, perché le selichot comunque sono un'ora di sonno in meno e io resto inguaribilmente nottambulo. Nella Diaspora uno poi si riposa la domenica, ma qui la domenica è un giorno di lavoro. Parlerò un'altra volta di tutto questo - e della scoperta di come funziona l'insegnamento delle materie umanistiche in America - e vi assicuro che funziona.
Qualcuno dei miei compagni di studio è stato in Europa e ha visitato Auschwitz. Uno di questi è PJ (che un blog ce l'ha e che devo linkarlo), che a Birkenau ha dei parenti seppeliti e che mi ha fatto venire i brividi quando ha scritto che la sensazione più forte è stata uscire da quel posto.
Ora devo aggiungere che c'è qualcuno dall'Italia che si diverte a spedirmi periodicamente nella casella postale una raccolta di articoli intitolati "Il resto del siclo", messa insieme da negazionisti, antisemiti ed antimperialisti di varia risma, e che vane sono state le segnalazioni all'antispam. Tra l'immondizia dei vari Blondet, Martinez e Mauro Manno ci finiscono dentro anche articoli di autori seri - non mi stupirei collazionata a insaputa degli autori stessi- purché l'argomento sia la menzogna di Auschwitz e quel che ci gira intorno. Parlate male (dei negazionisti) ma parlatene, che fa pubblicità: questo sembra il motto dei coraggiosi, ed anonimi, spedizioneri della monnezza succitata.
E così sono stato informato che Moffa ed i suoi proseguono la loro cagnara con toni sempre più triti, ovvero la solita denuncia del potere sionista nei media e dello studio della Shoah come legittimazione dello sterminio dei palestinesi. Eccoli inalberare trionfanti l'elenco degli accademici che NON hanno firmato la petizione promossa da Mantelli. E tra i firmatari riconosco i nomi di un paio di colleghi, autori anche di articoli (finiti nella monnezza interentdiffusa) in cui tirano in ballo la libertà di parola e il diritto, anche di Moffa e di Faurisson, di dire (o peggio, insegnare) che non è proprio vero che ad Auschwitz si moriva e che chi sostiene questa roba è un sionista assassino di bambini irakeni.
Eseguo un rapido conteggio dei colleghi ebrei che magari non sono esattamente entusiasti di lavorare accanto a chi invoca la libertà di parola per fare questa porcata, e scopro (sarà un caso) che nei dipartimenti in cui lavorano quei giovani, di ebrei proprio non ce ne sono. Uhm... Sapete, non è che l'accademia italiana abbia dato prova di grande coraggio, quando si presenta la possibilità di fare le scarpe a un collega, caduto improvvisamente in disgrazia perché sionista (o ebreo, qualche decennio fa) o "cattivo maestro" attorno al Settantasette. E sarebbe interessante incrociare l'elenco dei nomi dei firmatari in favore della libertà di parola di Faurisson con gli elenchi di chi chiede il boicottaggio accademico di Israele. Si scoprirebbe una concezione, diciamo così peculiare, della libertà di parola, e si potrebbe farne una geografia della diffusione nelle Università italiane, magari ricostruendo cordate e scuole indietro, fino, diciamo, al 1938. O alla (parziale) reintegrazione dei docenti ebrei dopo la Shoah. Sapete come vanno le cose in Italia.
Combinazione vuole che io abbia scoperto di aver ricevuto l'ultimo numero di questa rivista parapornografica mentre controllavo la E mail in biblioteca e che me ne stessi ambulando per i corridoi del College piuttosto amareggiato con persone che stimavo ed ecco che ti incontro PJ. Dico: lui è americano, è appena stato ad Auschwitz, avrà una sua idea della libertà di parola, che magari mi fa riconciliare con qualcosa - perché questi sono i momenti in cui far parte del popolo ebraico sembra essere in conflitto con il far parte della comunità degli intellettuali, o della Repubblica delle Lettere. Così gli ho chiesto se sarebbe in favore di una conferenza di negazionisti in una Università, sempre in nome della libertà di parola o di ricerca. Riporto qui quello che mi ha detto, perché è da un paio di ore che ci sto pensando.
"Probabilmente, quando sarò rabbino, mi troverò ad avere a che fare più di una volta con gente iscritta alla mia sinagoga, che sceglie di litigare con me per urlare che Dio non esiste. Quello che posso fare è mostrare a quella persona che io lo rispetto perché per me è fatto ad immagine di Dio. Forse non dargli la parola in sinagoga - perché non è il suo ruolo- ma durante la discussione della parasha, o durante il Talmud Torah. Allo stesso modo sì, io darei la parola a un negazionista, per quanto assurde siano le sue fesserie; lo farei non perché rispetto le sue posizioni, ma perché ho rispetto di lui. Ho quello che lui non ha. Forse mi fido troppo dell'intelligenza dei suoi interlocutori. Forse sarebbe una buona idea che non fosse solo. Comunque è una buona domanda. La libertà di parola non c'entra, è chiaro che è un pretesto. Il problema è come ti comporti, da ebreo, con chi nega i valori dell'Ebraismo, l'Ebraismo intero e vorrebbe eliminare tutti gli ebrei - con l'ecezione di pochi lunatici masochisti".
Ho dei compagni di scuola molto intelligenti. E ho sempre meno fiducia nell'efficacia di petizioni e mobilitazioni. Oltre che nell'accademia italica, sia chiaro.